Stati Uniti

Il Texas sta cambiando. Ma i repubblicani bianchi le provano tutte per tornare a 50 anni fa

di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni   7 luglio 2021

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I “wasp” diventano minoranza nello Stato e i conservatori, da sempre al potere, tentano di fermare il nuovo corso. Con leggi su voto, armi e diritti civili

Lunghi capelli neri raccolti in una crocchia stilosa e scarpe da tennis. Jalen McKee Rodriguez, afroamericano gay di ventisei anni, è il volto nuovo di questo Texas a cui l’immagine plastificata di western, cowboy e musica country calza ormai da tempo troppo stretta. Jalen è nato in Tennessee da genitori militari, ma è cresciuto alle Hawaii come Barack Obama. A San Antonio è arrivato otto anni fa e qui ha scritto una pagina di storia, diventando lo scorso giugno il primo candidato dichiaratamente gay ad entrare nel consiglio comunale della seconda città più popolosa dello stato. «Non avrei mai pensato di vincere le elezioni. E invece, eccomi qua!», confessa ridendo quando lo incontriamo in un caffè della periferia nord ovest.

Solo ai più distratti il Texas, che ha superato i ventinove milioni di abitanti, appare ancora come un monolite conservatore, roccaforte del partito repubblicano, con il suo blocco di residenti bianchi, benestanti, cristiani evangelici, fanatici delle armi e appassionati della Bibbia, concentrati soprattutto nelle aree rurali.

In realtà a San Antonio, come pure nelle altre metropoli di Houston, Dallas e Austin, tutte sopra il milione di abitanti, è in costante crescita il numero dei residenti latini, asiatici e afroamericani. Secondo l’ultimo censimento, quello del 2020, mentre i texani bianchi (non ispanici o latini) si fermano al 41,2% della popolazione, gli ispanici e latini toccano il 39,7%, gli afroamericani il 12,9 e gli asiatici il 5,2. Allo stesso tempo si abbassa l’età media dei nuovi arrivi anche dagli stessi Stati Uniti, grazie al fermento legato all’economia e al dinamico mercato del lavoro soprattutto nel settore delle tecnologie avanzate.

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Questi cambiamenti demografici hanno portato molti analisti ad incasellare il Texas nelle scorse elezioni presidenziali tra gli stati in bilico. Se i democratici non si aggiudicano la vittoria di un candidato presidenziale dal 1976, ovvero dall’elezione di Jimmy Carter, nel 2020 il margine di vantaggio di Donald Trump sull’avversario democratico Joe Biden si è fermato a 5,6 punti percentuali, uno dei più risicati degli ultimi decenni. Nel 2016 invece Hillary Clinton aveva perso per 9 punti, mentre nel 2012 Mitt Romney sorpassava Barack Obama quasi del 16%. Il vento è cambiato e oggi il feudo repubblicano non è più considerato una fortezza inespugnabile per i progressisti. Lo sa l’inossidabile e popolarissimo Ted Cruz che nel 2018 si è visto minacciare la rielezione certa in Senato dalla fenomenale ascesa del democratico Beto O’Rourke, sconfitto per una manciata di voti e meno di 3 punti percentuali.

Eppure l’establishment del Gop sembra non percepire il ribollire di questa evoluzione in atto. O forse lo sente benissimo e per questo, accusano i critici, si arrocca allo status quo, rallentando, a suon di norme e cavilli legislativi, la spinta verso il cambiamento. E così lo scollamento tra lo “stato reale” e quello “politico” diventa sempre più profondo. L’ultima sessione del parlamento statale è infatti considerata una delle più reazionarie, con all’attivo provvedimenti che, denunciano i detrattori, «sopprimono il voto delle minoranze» e «negano diritti fondamentali». Come l’aborto. Il Texas recentemente ha approvato una delle leggi più restrittive in materia di interruzione di gravidanza, vietata dopo la sesta settimana, non appena è possibile rilevare il primo battito del cuore del feto, spesso prima che una donna si accorga di essere incinta.

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Nessuna eccezione in caso di violenza sessuale. Inoltre poche settimane fa, il governatore Greg Abbott ha firmato una norma che permette di girare armati senza obbligo di licenza. Mentre un pacchetto bollato come un puro tentativo di “soppressione del voto”, non è arrivato sul tavolo del governatore solo perché i democratici sono usciti in blocco dall’aula facendo saltare il quorum. Il testo verrà comunque ripresentato in una sessione speciale.

Aborto, armi, voto: misure fortemente sbilanciate a destra, che testimoniano come in questa era post-Trump molti legislatori del Gop, impegnati in passato soprattutto nelle battaglie per la riduzione delle tasse o per le limitazioni dell’ingerenza del governo, abbiano abbandonato il centro per farsi portavoce dell’ala più estrema del partito. Un trend annotato nei mesi scorsi anche in altri stati conservatori, che però suona come un campanello d’allarme a livello nazionale nel “Lone Star State”, secondo solo alla California per numero di abitanti.

«Il Texas sta cambiando, è culturalmente vario, moderno, sempre meno bianco, popolato da immigrati da ogni parte del mondo. Eppure la politica rema in direzione opposta, ha spostato l’orologio indietro di 50 anni», ci spiega Sarah Labowitz, coordinatrice texana dell’Unione americana per le libertà civili (Aclu). «Vogliono limitare il diritto al voto, stanno cercando di rendere illegale l’aborto, stanno addirittura rivisitando il codice segregazionista», spiega. «Sono provvedimenti pensati a discapito delle minoranze. Partiamo dal Bill N.7, il disegno che riguarda le elezioni: nel testo, era prevista una limitazione dell’accesso ai seggi, tagli ai finanziamenti per il voto per posta e una rimodulazione del voto anticipato». Gli esempi non finiscono.

«Prevedeva uno slittamento del voto domenicale che avrebbe colpito il programma promosso dalle chiese nere, “Souls to the Polls” che organizza bus di fedeli per la registrazione al voto (visto che negli Stati Uniti è responsabilità dei cittadini iscriversi nelle liste elettorali n.d.r.) e per i seggi. Il disegno di legge poi includeva 16 nuove infrazioni elettorali, tutte a carico di neri o ispanici». Labowitz non fa sconti: «In Texas stanno cercando di manipolare il sistema di voto per conservare il proprio potere».

Sostanziale è la differenza tra i texani politicamente attivi e quelli che invece restano ai margini del processo elettorale. «Solo una fetta di latini, afroamericani e asiatici vota», ci fa notare il professor Mark Jones che insegna Scienze Politiche alla Rice University di Houston. «I bianchi votano molto di più. La base bianca repubblicana è ancora quella che va con più convinzione alle urne. Rimane forte, arrabbiata. Se i democratici vorranno davvero cambiare il colore dello stato, bisognerà incidere sull’affluenza, convincendo più persone a registrarsi per il voto e poi effettivamente a votare», conclude il docente.

A Rogelio Sáenz, demografo dell’Università del Texas a San Antonio, abbiamo invece chiesto aiuto per fare chiarezza sul peso specifico del voto non bianco e latino nella sua peculiarità. «La popolazione bianca e benestante è in calo: diventa sempre più anziana. La migrazione caucasica non regge quella di latini, asiatici e afroamericani». Oggi ad arrivare sono soprattutto i giovani. «Se consideriamo gli over 18, il gruppo dei bianchi è ancora in maggioranza. Ma i numeri si avvicinano sempre di più». Sáenz ci spiega che i repubblicani stanno anche abusando del ricorso al cosiddetto gerrymandering, ovvero la modifica ad hoc dei confini dei collegi elettorali per favorire l’uno o l’altro candidato. «Dal 2010 il Texas, grazie soprattutto all’aumento della popolazione non bianca, si è aggiudicato due poltrone in più al Congresso. Nonostante ciò, il Gop ridisegna i collegi elettorali in modo che latini (il 70% vota democratico, il 30% repubblicano) e i neri non abbiano mai la maggioranza».

Sáenz coglie però segnali di novità. «Il Texas ha sempre avuto un basso grado di coinvolgimento civico e questo ha permesso alla politica di agire senza indugi», sottolinea. «Oggi però i movimenti stanno denunciando queste pratiche; non solo c’è più attivismo, ci sono più giovani che si candidano. È questa la vera minaccia per i conservatori».

Ne è un esempio proprio Jalen McKee Rodriguez, che presto lascerà il suo lavoro di insegnante di matematica per diventare amministratore a tempo pieno: «Sono giovane, gay e nero, mai avrei pensato di avere una chance qui in Texas». Sono state le organizzazioni intorno a lui a convincerlo a scendere in campo e ad aiutarlo con una raccolta fondi che ha coinvolto tutti gli Stati Uniti. «Sempre più persone decidono di esercitare il proprio diritto al voto. E quando vanno alle urne, scelgono qualcuno che li possa rappresentare, che gli assomigli».

A questa onda di mobilitazione si sono uniti gli attivisti Josey Garcia e Pharaoh Clark, fondatori del gruppo Reliable Revolutionaries, che incontriamo al Travis Park. Un luogo simbolico: è qui che a San Antonio sono iniziate le proteste dopo l’uccisione a Minneapolis dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia. «Stiamo lavorando per le elezioni di metà mandato, organizziamo eventi per spingere la gente a registrarsi. La vittoria democratica in Georgia nelle passate elezioni ci ha galvanizzato», spiega Garcia, veterana di origine ispanica. L’altro co-fondatore, Pharaoh Clark, afroamericano, rimarca invece che «molte delle leggi firmate dal governatore Abbot sono state possibili perché i cittadini non sono stati coinvolti o semplicemente informati. Puntiamo a far capire alla gente che insieme abbiamo il potere di cambiare le cose. La nostra arma è l’affluenza alle urne».

Intanto i repubblicani rispediscono al mittente ogni accusa, le alte cariche ribadiscono che non c’è alcuna limitazione dei diritti delle minoranze, ma che la legislatura ha lavorato per garantire l’integrità delle elezioni (legge sul voto), il rispetto della vita (legge sull’aborto) e la sicurezza fisica delle persone (norma sulle armi). «La verità è che il sistema ha paura di questa spinta progressista, sa di non poterla catalizzare e teme che si possa concretizzare in un successo elettorale dei democratici», ci dice il neoconsigliere Jalen McKee Rodriguez.

«Non riuscendo a trovare risposte da dare alle esigenze delle minoranze, cercano di limitare e rendere più difficile il loro accesso al voto; nel frattempo si arroccano intorno alla propria base elettorale che però sta lentamente scomparendo. Le organizzazioni dal basso sono aumentate dopo l’elezione di Trump. Non possiamo più permettere a persone come lui di decidere il futuro del nostro Stato e del nostro Paese». Se molti ci parlano di una pentola a pressione che rischia di scoppiare, Jalen McKee Rodriguez preferisce la metafora del passaggio del testimone durante una maratona: «In Texas, nonostante i cambiamenti demografici raccontino una popolazione nuova e attiva di giovani di colore e di donne, nessuno del vecchio establishment ha intenzione di cedere il passo. A rischio è la democrazia. Se si ostineranno a correre da soli senza includerci, insomma a non passare la torcia anche a noi, saremo costretti ad afferrarla da soli».